Tusitala Typewriter
Robert Lewis Balfour Stevenson aveva smesso di viaggiare perché stava morendo ormai da troppo tempo.
La nera signora lo aveva scovato anche in quella remota isola samoana – ma l’aveva mai perso di vista ?-.
Gli camminava accanto da quando era un bambino, gli era madre e sorella e spesso gli parlava, ma solo all’inizio dei sogni.
Si fece portare la sdraio sulla veranda. Fanny gli sistemò la coperta e gli portò un bicchiere di Bordeaux.
- Quante bottiglie abbiamo ancora?
- Moltissime. – mentì lei.
- Spero che bastino.
Il tramonto era intenso e rapido, non bisognava perderne un attimo. Lo guardarono in silenzio, tenendosi la mano. Pensò ai tramonti e alle albe scozzesi, visti dal faro di Monach, sull’isola di Shilley. A quel tempo suo padre sperava ancora che Robert continuasse la tradizione di famiglia. Robert portava il nome del nonno, grande costruttore di fari lungo le coste scozzesi. Thomas Stevenson, il padre, se lo portava dietro nei suoi giri di ispezione, non c’era mare grosso che potesse impedirgli di salire sui suoi fari e gli piaceva la sera versarsi un whiskey e berlo girando sul camminamento esterno.
- Non hai paura che ti ci arrivi uno spruzzo di acqua di mare?
- Mai successo – e gliene faceva bere un sorso, per dimostrazione; Robert aveva 15 anni e scriveva poesie, era tempo che imparasse a conoscere il whisky.
“…e finalmente quando l’alba chiude la notte e cinge il semicerchio del mare, il faro pallido e alto nella luce sembra più bianco e spettrale che mai… la notte è finita come un sogno… mentre, sulla torre bianca che si solleva alta con luce gialla nel vetro sbiadito, le lenti rotanti lampeggiano e scorrono e brillano fiocamente contro il cielo.”
Nessuno veniva più da tempo a chiedergli di raccontare delle storie al villaggio di Vailima, quelle storie scozzesi che i samoani amavano tanto, quelle storie per cui gli avevano dato il nome di Tusitala, colui che racconta le storie.
Quel suo nuovo pubblico non sapeva leggere e non aveva nessuna preparazione letteraria, ma sapeva ascoltarlo attento e lui poteva sentirsi ancora una volta uno scrittore.
Ormai lasciava fare, ma non credeva più nelle cure, indigene o scozzesi. La cuoca Tahiri cucinava per lui il pesce nel cocco e gli dava i pezzi più pregiati: ma lui mangiava pochissimo.
Da molto tempo non toccava la macchina magica, quella che gli raccontava le storie.
Un giorno Tahiri si era fatta coraggio e gli aveva chiesto:
- Come mai ?
- La macchina ha perso il suo spirito, e non so più dove trovare le storie. Gli dei tacciono.
Tahiri si era messa le mani al volto, spaventata: aveva capito. E sapeva quello che succede quando gli dei tacciono troppo a lungo. Ne parlò con gli anziani, che decisero di consultare il capo.
A qualcuno venne un’idea: forse può sentire la voce dei nostri dèi, e raccontarci altre storie. Ma restava il problema della macchina magica, non potevano rubarla, e poi era sacra.
E sacra lo era per Stevenson, una Hammond che pesava un accidente, una follia portarsela in giro per il mondo, quella era roba da scrittori sedentari: ne era orgogliosissimo, era stato uno dei primi ad averla, mentre i suoi colleghi non si fidavano di quel marchingegno. A lui piaceva picchiare forte sui tasti. Veniva dal futuro quell’aggeggio e lui amava il futuro, del passato non gli importava niente.
Ainu il figlio di Tahiri aveva spesso portato Stevenson a pesca e gli voleva bene: era bravissimo col legno, gli davi un coltello e ti intagliava un delfino, una stella, il volto di una ragazza. Chiesero a lui.
Ci mise molti giorni, e lavorò in segreto. Aspettò che il sacerdote facesse la cerimonia nella notte di luna piena, legando uno spirito potente con un incantesimo.
Il sacerdote era soddisfatto, e anche il capo.
Gliela portarono di sera, con tamburi e fiaccole:
- Questa conosce le storie del nostro popolo, e tu ce le potrai raccontare.
Stevenson guardava stupefatto il piccolo monumento di legni, di tasti, di fili d’erba. Sembrava il sogno di una macchina da scrivere. Si tirò su a fatica, per ringraziare con dignità.
Ci mise le mani sopra, attento a non rompere i piccoli legni.
Sentì nitidissimo un suono di cornamuse da guerra, vide la gente del suo clan avanzare nella brughiera. Vide il grande faro di Monach, proprio in cima al monte Vaea. Indicò la direzione con la mano.
- Vi dirò altre storie, ma voi promettetemi di portarmi là, in cima al monte Vaea, quando gli dei mi chiameranno per insegnarmene ancora.
Thahiri piangeva piano, Fanny si torceva il fazzoletto tra le mani. Il capo assentì.
Otto giorni dopo, il tre dicembre del 1894, quaranta capi giunti da tutte le isole portarono Tusitala, colui che racconta le storie, a braccia, in cima al monte Vaea e poggiarono sulla terra la sua macchina magica, ultimo dono dei samoani al loro grande amico.
Teresa Rosalini è Ainu, creatore della “macchina che sa le storie”.
Andrea Bocconi, scrittore